(Di Francesco Nigro) Nel silenzio solenne delle chiese pugliesi, tra stucchi ingialliti e altari abbandonati alla polvere del tempo, Domenico Antonio Carella continua a parlare. Non urla, non si impone. Sussurra. Eppure, chi sa ascoltare la voce dei pittori veri – quelli che non hanno cercato la gloria, ma hanno servito la bellezza – non può restare indifferente.

Nato a Francavilla Fontana attorno al 1720, Carella fu pittore napoletano per cultura, pugliese per carne, barocco per anima, ma già proiettato verso quel mondo leggero e sentimentale che sarebbe stato il Rococò. Operò tra la seconda metà del Settecento e gli albori dell’Ottocento, lasciando le sue impronte cromatiche nel territorio dell’all’ora Terra d’Otranto. Morì nel 1813.

Due rette che si incontrano una sola volta

Due rette incidenti che si incontrano una sola volta: così l’assioma della geometria ci insegna. Quindi perché non immaginare che Domenico Carella e Giovanni Paisiello, entrambi figli del Sud e destinati a diverse immortalità, si siano davvero incontrati? Era l’anno 1752. Carella aveva circa ventitré anni e lavorava a Martina Franca per la corte del duca Caracciolo. Paisiello, poco più che bambino, vagava nei sogni della musica. Due rette che si sfiorano: una resterà nei paesi, l’altra partirà per Napoli.

Carella: «Tu canterai per re e regine; io dipingerò per chi resta».

Paisiello: «Ma chi resta, guardando i tuoi colori, sentirà la mia musica».

Un teatro sacro dipinto per Dio e per gli uomini

Carella non fu rivoluzionario. Non fu innovatore. Fu, come molti pittori meridionali, artigiano e servitore della fede e della forma. Ma proprio in questa umiltà si nasconde la sua grandezza.

Le sue pale d’altare, i suoi affreschi, le sue scene bibliche e allegoriche sembrano sipari di un teatro sacro, dove i santi recitano con dignità silenziosa e gli angeli fluttuano come attori sospesi nell’oro della Puglia. Non c'è enfasi retorica, né probabilmente tormento caravaggesco. Piuttosto una pittura chiara, solare, domestica, che profuma di incenso e di calce viva, di lume d’olio e fatica.

I suoi colori – caldi, clementi, mai violenti – parlano la lingua della terra: l’ocra delle pietre, il blu degli orizzonti jonici, il rosso dei tramonti estivi. Le sue figure hanno il volto dei contadini vestiti da santi, dove il confine tra sacro e umano si fa sottile come una vela al tramonto.

Un’opera mitologica nel cuore del barocco

Ma Carella non fu solo pittore della devozione: sapeva usare lo stesso linguaggio anche nella narrazione profana e mitologica. Emblematica, in tal senso, è la sua opera "Vulcano mostra a Venere le folgori forgiate".

La scena è intima e teatrale. Vulcano, nella penombra della fucina, solleva con fierezza le armi divine, illuminate da un bagliore metallico. Venere lo guarda con un misto di grazia e distacco, in un equilibrio sensuale e composto. La luce scolpisce i corpi, ammorbidisce i panneggi, vibra sulle superfici come un’eco musicale. Non c’è dramma, ma contemplazione; non impeto, ma ritmo lento, quasi pastorale.

Carella traduce il mito in sentimento e lo stilema barocco in gesto rococò: una pittura che racconta senza gridare, che ammalia senza provocare. È teatro anche questo, ma un teatro dell’anima e del corpo, dove l’estasi è sussurrata.

Il gemello pittorico di Giovanni Paisiello

Se Carella dipingeva con pennellate piene di grazia e compostezza, Giovanni Paisiello, suo quasi coetaneo e compaesano pugliese, componeva con la stessa voce interiore. Entrambi nati sotto il sole del Sud, entrambi formati nella Napoli capitale delle arti, entrambi eleganti, narrativi, armoniosi.

Paisiello scrisse opere buffe che non scadevano mai nella farsa, ma conservavano una grazia aristocratica anche nella leggerezza. Carella, allo stesso modo, portò nelle sue tele una leggerezza pensata, composta, un senso teatrale che non era affettazione ma messa in scena del divino.

Paisiello è la musica della devozione civile, della vita quotidiana trasfiguratasi in arte; Carella è la pittura dello spirito popolare sublimato. Entrambi sono figli del Settecento mediterraneo, che seppe unire la ragione e il sentimento.

Conclusione

Ricordare Domenico Carella non è solo un atto di giustizia artistica. È un modo per riscoprire la voce segreta della pittura meridionale, quella che vive nei muri, nei cieli affrescati, negli sguardi dei miti con le mani callose. È come ascoltare un’aria di Paisiello in una chiesa vuota: delicata, limpida, perfetta. E profondamente, infinitamente, nostra.