La sconfitta del cinema non è la vittoria dello streaming
Una buona parte dei lettori di questo articolo, forse, non potrà nemmeno comprendere l’esperienza unica della sala cinematografica, non potrà ritrovare dentro di sé il ricordo di quella particolare avventura dell’anima che è il cinema come luogo fisico. Il profumo inconfondibile della moquette, il calore dell’ambiente, le locandine appese alle pareti, la sensazione di entrare in un luogo dove si sarebbe compiuto un piccolo rito, che ci avrebbe permesso l’accesso a un mondo altro, in cui sospendere giudizi e credenze, impegni e senso comune.
Entrare in un cinema significa provare la sensazione di oltrepassare una soglia e che nel tempo concessoci in questa nuova dimensione avremo potuto uscire da noi stessi, per essere qualcun altro, sospendere il giudizio per lasciarci guidare verso nuovi luoghi della mente, nella pancia di una nave in cui solcare mari tempestosi, ma con la consapevolezza di essere in qualche modo sempre al sicuro: un regresso uterino che ci fa tornare bambini, anche se le storie sono quelle ansiogene dei film thriller o horror, e grazie al quale possiamo tornare a fare liberamente quello che l’uomo ha sempre fatto, dalla notte dei tempi, ascoltare storie.
Oggi più che mai le storie sembrano mancare, il fascino della narrazione, per esistere, deve aggrapparsi sempre più a escamotage formali, a nuove forme, a effetti speciali sensazionali, ma la sensazione è che le storie sembrano affascinare sempre meno, soprattutto le nuove generazioni, bombardate da contenuti molteplici, slegati tra loro, ridotti spesso a trend auto-moltiplicantesi: le possibilità generative dei social sono sfruttate da forme virali che riproducono se stesse fino a saturare l’organismo, che se ne libera all’improvviso dopo una più o meno lunga febbre. Nulla a che vedere con l’intertestualità letteraria e cinematografica, quella esperita sui social assomiglia piuttosto a una riproduzione parossistica di un template, che termina col rigetto da parte della stessa comunità degli utenti: forme ripetitive, chiuse, che non aprono a nessun significato, anzi, in cui la stessa nozione di significato non costituisce neppure un orizzonte desiderato.
La crisi del cinema e delle altre forme narrative si inserisce in questo contesto ed è tanto a fondo organica a quella culturale di un’intera civiltà, quella occidentale, che anche solo tentare di definirne i confini sarebbe impossibile nel breve corso di un articolo. Ma se la crisi delle narrazioni affonda le radici in sommovimenti culturali macroscopici, indagabili nei tempi della storia, certo possiamo individuare anche nel presente le cause dell’accelerazione violenta degli ultimi anni di questo declino.
Queste cause si situano nel presente e nella quotidianità di tutti: non è difficile individuare la principale nell’esplosione delle piattaforme streaming, che in meno di un decennio hanno cannibalizzato l’industria del cinema, convogliando verso di sé pubblico e risorse, in una spirale che non sembra essere prossima ad arrestarsi.
I vantaggi dello streaming sono molteplici, evidenti e misurabili, almeno da un punto di vista economico: l’offerta è amplissima, nell’ordine delle migliaia di titoli, il prezzo l’equivalente di meno di un ingresso al cinema per i pacchetti più convenienti delle principali piattaforme. Allo stesso tempo la possibilità di fruizione è assolutamente libera, possiamo guardare un film in ogni momento, possiamo metterlo in pausa, possiamo scegliere di smettere di vederlo a metà o dopo pochi minuti, possiamo guardare un film mentre facciamo pilates in salotto, possiamo mandare avanti le scene che non ci piacciono: la pellicola, smaterializzata in bytes, si sottomette completamente alle nostre esigenze di consumatori.
Al cinema sembra che sia stato applicato l’attributo principale del capitale secondo il credo neoliberista: la fluidità. Completamente slegato dal luogo fisico della sua fruizione tradizionale, la sala cinematografica, è aggregato monopolisticamente in pochissime piattaforme, che si spartiscono la quasi totalità di esso; il cinema pare condividere con il capitale nella sua declinazione finanziaria, anche l’ormai assodata incapacità di creare valore reale.
Infatti, dopo l’Hype iniziale, qualche timida voce critica si sta sollevando anche dai più fervidi sostenitori dello streaming, celebrato all’inizio come uno degli ultimi mirabilia del tardo capitalismo, che avrebbe democratizzato il cinema, rendendolo accessibile a tutti, ovunque, in qualunque momento. Niente di tutto questo, ma un catalogo sterminato con moltissimi prodotti di basso livello, in cui perdersi è facile, anzi, in cui perdersi diventa l’esperienza stessa: quanti di voi si sono smarriti nel catalogo di una piattaforma streaming, per uscirne esausti e insoddisfatti, prima di recarsi mestamente a letto (magari riprendendo in mano un libro abbandonato settimane prima)?
Un accumulo intangibile di merci invendute, il residuo indigesto e indigeribile che richiama il paragone scatologico, questo, in gran parte, costituisce il catalogo delle piattaforme di streaming. Ci troviamo di fronte a un’abbondanza patinata di locandine digitali, a un packaging ineccepibile, a una navigabilità teoricamente semplice e intuitiva, che sotto non custodisce nulla, a uno specchio curvo che riflette se stesso.
La crisi del cinema è un fenomeno complesso, irriducibile a un’unica causa, ma di sicuro l’analisi delle piattaforme di streaming e dell’esperienza degli spettatori, ormai sempre più simili a consumatori compulsivi – il fenomeno del binge-watching è solo l’esempio più estremo – può aiutare a fare luce sull’evoluzione più e meno recente dei prodotti filmici e del cinema come istituzione culturale, per indagare le cause antropologiche e culturali che ne hanno sancito il declino.