Quanto è difficile essere gay nel calcio moderno?

Calcio Varie
Francesco Caroli
03.09.2020 17:38

Magdalena Eriksson e Pernillee Harde
Con un fatturato di poco inferiore ai 20 miliardi di euro nel 2017, l’industria del calcio italiano si trova in terza posizione tra i settori più fruttuosi per lo Stato, dopo l’impiego pubblico e quello finanziario. Si stima che per ogni euro investito da una società di calcio, lo Stato ne intaschi quindici: tre quarti del fatturato provengono dalle categorie professionistiche ed il restante 25% dai dilettanti. Cifre da capogiro, che fanno ben comprendere l’impatto, sì economico ma, soprattutto, sociale, che un settore del genere ha sulla comunità. Si tratta di un fenomeno dalla portata sociale impressionante, tra i milioni di spettatori che ogni domenica osservano religiosamente la propria squadra e chi, con altrettanta devozione, si reca allo stadio per mostrare la propria vicinanza e la propria fede alla squadra di calcio locale. Altrettanto impressionante è l’ostilità di questo settore – a livello mondiale - nei confronti dell’omosessualità, sdoganata da circa trent’anni ma ancora ostracizzata nel calcio moderno. Un comportamento che lascia, a conti fatti, una delle più grandi industrie del mondo indietro di 50 anni.

L’ultima volta che nel calcio italiano si è parlato di omosessualità è stato quando nel 2016 l’allora allenatore del Napoli, Maurizio Sarri diede del “finocchio” all’ex tecnico dell'Inter, Roberto Mancini, ora alla guida della nazionale. L’allenatore toscano provò a sviare la faccenda asserendo che avrebbe potuto anche dargli del democristiano, senza scusarsi per il termine utilizzato. Si tratta di un esempio che ben esplica il rapporto del calcio italiano con l’omosessualità, relegata a semplice insulto da rivolgere all’avversario. I lettori più avanti con l’età ricorderanno, invece, l’episodio riguardante la Nazionale Italiana che disputava il Mondiale del 1982, con protagonisti Rossi e Cabrini, “accusati” - in maniera ironica-  dalla stampa di formare una coppia omosessuale per via degli atteggiamenti affettuosi tra i due, i quali convivevano per altro nella stessa stanza d’albergo: presto fatto, la Nazionale tagliò i rapporti con la stampa fino alla fine del torneo, più per ripicca dell’offesa che per difesa della comunità LGBT. Quarant’anni dopo non sembrano esserci progressi concreti.

Justin Fashanu

Non un problema italiano, comunque: i calciatori che, dagli anni ’90 ad oggi, hanno deciso di fare coming-out – il termine, a volte criticato, col quale si indica l’azione di dichiararsi pubblicamente omosessuali – si contano sulle dita di… due mani: nove, precisamente. La maggior parte avvenuti a carriera finita, ma non sempre. Il caso più eclatante è sicuramente quello di Justin Fashanu: calciatore inglese cresciuto nelle giovanili del Norwich, debuttò nel 1979; da lì, una carriera in ascesa: Nottingham Forest, Southampton, Brighton, Manchester City e West Ham. Divenne addirittura il primo calciatore inglese nero ad essere valutato un milione di sterline. Questo fino al 1990, quando dichiarò pubblicamente di essere omosessuale. La decisione venne accolta con ostilità sia dal mondo sportivo che dalla comunità nera britannica: i tabloid inglesi lo accusarono di aver creato un danno d’immagine “patetico ed imperdonabile” alla comunità nera ed il fratello John, anch’egli calciatore, lo rinnegò pubblicamente. Per Fashanu la carriera calcistica era terminata: qualche piccola parentesi oltreoceano, tra Canada e America; poi, nel ’97, un’accusa infondata di stupro ai danni di un diciassettenne, la fuga in Inghilterra alla quale seguirono due settimane di latitanza ed infine il suicidio in un garage di Londra. Un bigliettino accanto a lui recitava: «Desidero dichiarare che non ho mai e poi mai stuprato quel giovane. Sì, abbiamo avuto un rapporto basato sul consenso reciproco, dopodiché la mattina lui mi ha chiesto denaro. Quando io ho risposto "no", mi ha detto: "Aspetta e vedrai". Sperò che il Gesù che amo mi accolga: troverò la pace, infine.»

Il caso Fashanu è senz’ombra di dubbio il più eclatante per quanto riguarda i calciatori dichiaratisi omosessuali, ma non riuscì a smuovere le acque di un ambiente ancora troppo maschilista e, probabilmente, omofobo. Lo spiega anche l’attuale capitano del Watford, squadra militane nella Premier League inglese, Deeney: «Probabilmente in ogni squadra di calcio c’è almeno un giocatore gay o bisessuale. Ne sono sicuro al 100% e penso che molti siano preoccupati del fatto di doversi assumere la responsabilità di essere i primi a dichiararlo, ma quando uno lo avrà fatto, allora poi ce ne saranno molti altri. Sono convinto che dopo il primo coming out, tempo una settimana e almeno altri cento farebbero la stessa cosa. ».

Eppure, a spiegare la difficoltà che ha un calciatore a dichiararsi omosessuale ci ha pensato Robbie Rogers. Calciatore americanomilitante nel Leeds United, Rogers ha deciso di lasciare il calcio giocato a soli 27 anni nel marzo del 2017, a causa di un gravissimo infortunio occorsogli durante una partita del Leeds. Convocata la conferenza stampa in cui avrebbe annunciato il ritiro, egli decide di dichiarare la propria omosessualità, spiegando di aver voluto aspettare la fine della carriera per paura di essere isolato e vessato da tifosi, colleghi ed allenatori. Al quotidiano inglese ‘The Guardian’, Rogers ha dichiarato di non credere che tutti i tifosi, gli allenatori ed i calciatori siano omofobi, ma che se avesse reso nota la sua omosessualità prima non avrebbe avuto vita facile. Spesso ha dovuto sopportare frasi di allenatori che urlavano di non passare la palla come un ‘frocio’, spingendolo a chiedersi cosa c’entra il proprio orientamento sessuale con il mondo in cui si passa la palla. Spiritosaggini da secolo passato che non lo hanno mai fatto ridere.

Non tutto il calcio è – apparentemente – etero, però: ci sono storie bellissime che hanno a che fare anche con il calcio… femminile! Ad esempio, quella tra Magdalena Eriksson e Pernillee Harder: la prima milita nel Chelsea, del quale è capitano, e nella nazionale svedese; l’altra gioca per il Wolfsburg e la nazionale danese, di cui è anche capitano. Entrambe sono la compagna di vita dell’altra, trovatesi avversarie nell’ultimo mondiale, nel quale hanno commosso il mondo intero: quando la Svezia ha sconfitto il Canada, qualificandosi ai quarti di finale, la Harder è scesa sul campo con la maglia svedese per complimentarsi, con tanto di bacio, con la sua fidanzata. Immagini che fanno riflettere su quanto, anche nel calcio, si può imparare dalle donne.

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